Di Chiara Di Lucente
La recente metanalisi indipendente a cui ha partecipato il cardiologo della Casa di Cura Pierangeli ha fotografato lo stato attuale delle protesi valvolari aortiche, per il maggior benessere possibile dei pazienti a cui vengono impiantate

Come decidere se una protesi è meglio di un’altra e come svilupparne sempre di migliori? Grazie alla ricerca scientifica. Per esempio, una metanalisi indipendente a cui ha partecipato il Dott. Michele Di Mauro, specialista in cardiologia e cardiochirurgia, che lavora presso la Casa di Cura Pierangeli e come research consultant dell’Università di Maastricht, in Olanda, ha fatto luce su una complicanza molto comune legata all’impianto di protesi valvolari aortiche transcatetere (TAVI): la necessità, dopo l’intervento, di impiantare un pacemaker per ristabilire il normale ritmo del cuore. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Europace, ha contribuito a realizzare una fotografia estremamente attuale delle applicazioni di questa procedura interventistica e potrà aiutare le società produttrici di queste protesi a realizzare migliori dispositivi medici, con l’obiettivo di ottenere il minor numero di complicanze e quindi il maggiore benessere possibile dei pazienti.
A cosa servono le protesi valvolari aortiche
Facciamo un passo indietro. L’aorta è l’arteria che, partendo dal cuore, ha lo scopo di trasportare il sangue ossigenato in tutto il corpo, attraverso quella che viene detta circolazione sistemica: in questo modo tutti i tessuti del nostro organismo, dalle estremità inferiori fino alla testa, ricevono quantità adeguate di ossigeno e nutrienti. In particolare, il cuore funziona come una pompa: grazie alla sua componente muscolare, esso si contrae ritmicamente (in condizioni normali, circa 70-80 volte al minuto), spingendo il sangue contenuto al suo interno nell’arteria aorta e da lì, attraverso ramificazioni successive sempre più piccole, a tutti i vasi sanguigni, in modo da raggiungere ogni distretto del corpo. Affinché, una volta nell’aorta, il sangue non torni indietro nel cuore ma possa proseguire nella circolazione sistemica, l’arteria possiede una valvola che impedisce il ristagno di sangue. Questa valvola, chiamata aortica, è costituita da tre lembi di tessuto che, quando necessario, chiude il collegamento tra cuore e arteria: durante la contrazione cardiaca il sangue è spinto nell’aorta, facendo aderire i lembi della valvola aortica alle pareti del vaso; subito dopo la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare al cuore.
Tuttavia a volte succede che la valvola aortica abbia dei problemi, per esempio a causa di malattie congenite o acquisite nel tempo. In particolare, si può verificare la cosiddetta stenosi della valvola aortica, ovvero un suo restringimento che impedisce alle normali quantità di sangue di essere pompate nella circolazione sistemica e che comporta un maggior carico di lavoro per il cuore stesso. Se non trattata, infatti, la stenosi aortica può condurre all’insufficienza cardiaca: se la valvola è troppo compromessa, il trattamento d’elezione per risolvere questo problema in maniera definitiva è l’impianto di una protesi, meccanica o biologica, al posto della valvola aortica non funzionante. “Se prima si utilizzava principalmente l’approccio chirurgico, negli ultimi anni la pratica clinica si sta evolvendo verso l’impianto percutaneo transcatetere di queste protesi nei pazienti anziani e spesso ad alto rischio”, ci racconta Michele Di Mauro. Esso è un intervento di che impiega l’utilizzo di un catetere in modo molto simile a quanto accade per altri interventi, come per esempio quelli di angioplastica coronarica. Mentre infatti nell’approccio chirurgico viene eseguito un intervento a cuore aperto per sostituire la valvola aortica, con l’approccio percutaneo vengono eseguiti solo dei piccoli tagli all’altezza dell’arteria femorale, in cui poi viene inserito un catetere che arriva fino all’aorta. A questo punto il catetere guida l’impianto della protesi, che poggia solitamente su un supporto metallico espandibile (detto anche stent) che allarga il restringimento causato dalla stenosi valvolare. Grazie alla sua minor invasività, l’impianto percutaneo risulta essere più sicuro rispetto alla controparte chirurgica nei pazienti anziani, sopra ai 75-80 anni e nei pazienti ad alto rischio per un intervento chirurgico.
“Grazie a questo approccio – sottolinea Di Mauro – negli ultimi anni si eseguono molti più impianti di protesi valvolari transcatetere, perché al di sopra dei 75 anni, soprattutto nei pazienti ad alto rischio, la scelta deve necessariamente ricadere sulla procedura meno invasiva. Quello delle protesi valvolari di questo tipo, quindi, è un ambito relativamente nuovo ma in grande espansione, in cui le aziende che producono dispositivi medici investono molto tempo e risorse per migliorare sempre di più gli esiti degli interventi di impianto”.
Tuttavia, nonostante i vantaggi apportati e i risultati promettenti, questa procedura può presentare una complicanza ben nota: l’insorgenza di disturbi al sistema di conduzione del cuore che portano all’impianto di un pacemaker permanente. Perché ci sia un flusso costante di sangue verso tutti i distretti corporei, infatti, il cuore si contrae in maniera ritmica e autonoma, indipendentemente dal sistema nervoso che invece fa contrarre tutti gli altri muscoli del nostro corpo: questo è possibile perché il cuore possiede un gruppo di cellule che generano un impulso nervoso e un raffinato sistema di conduzione elettrico che permette di trasmetterlo a tutto il tessuto muscolare cardiaco. Quando ci sono problemi a questo sistema, il cuore rischia di non pompare più sangue, con conseguenze molto gravi: ecco perché, in presenza di disturbi del ritmo cardiaco, si impianta il pacemaker, un dispositivo elettronico che è in grado di generare l’impulso elettrico che fa contrarre il cuore. “Dal momento che, durante l’impianto percutaneo della protesi valvolare, si è molto vicini alla regione del cuore in cui è presente il sistema elettrico di conduzione dell’impulso, il rischio è quello di forzare questo sistema e aver bisogno di impiantare un pacemaker”, aggiunge Di Mauro. “La domanda che ci siamo fatti con il gruppo di ricerca con cui ho collaborato è quale fosse la protesi valvolare che generasse di più questo problema”.
Una fotografia dello stato attuale
Per rispondere a questa domanda il gruppo di ricerca ha eseguito una metanalisi che ha incluso tutti gli studi che utilizzavano le diverse tipologie di protesi valvolari, valutando di volta in volta la necessità di dover impiantare un pacemaker nei pazienti dopo l’intervento. Non esiste, infatti, un’unica protesi valvolare che può essere impiantata, ma ve ne sono diversi tipi: vi sono le valvole espandibili grazie a un palloncino, quelle espandibili autonomamente e quelle espandibili meccanicamente. Nel primo caso, la protesi viene posizionata dal catetere sulla valvola con stenosi e viene espansa grazie al gonfiaggio di un palloncino, che consente il suo corretto posizionamento; nelle protesi valvolari espandibili autonomamente, la protesi si posiziona da sola, in maniera graduale, dopo che il catetere viene rimosso dall’operatore; infine, nell’ultimo caso, il posizionamento della protesi avviene grazie all’espansione meccanica della protesi, mediata grazie a un telaio che ingrandisce la protesi. “Volevamo avere una fotografia di quello che fosse successo, fino al 2020, nell’ambito degli impianti percutanei di protesi valvolari transcatetere, in modo da capire il trattamento migliore per i pazienti”, afferma Di Mauro.
Sulla base di 31 diversi studi, il gruppo di ricerca ha trovato che il minor numero di impianti di pacemaker permanenti è stato raggiunto con le valvole espandibili a palloncino, seguite dalle valvole autoespandibili e infine dalle valvole espandibili meccanicamente. “Il risultato più importante – sottolinea Di Mauro – è proprio quello relativo a queste ultime: oggi sono state ritirate dal commercio, ma già studi di qualche anno fa indicavano che le valvole espandibili meccanicamente avevano un impatto maggiore sul sistema elettrico del cuore. Per quanto riguarda le altre, sebbene le valvole a palloncino abbiano mostrato risultati migliori, una delle valvole autoespandibili si è dimostrata la migliore in assoluto”. Studi del genere sono molto importanti, afferma il nostro specialista “perché, oltre a fotografare lo stato dell’arte di questi dispositivi fino al 2020, fornisce informazioni importantissime per chi li produce, accelerando il loro processo di evoluzione che garantisce un benessere sempre maggiore dei pazienti”.