Di Chiara Di Lucente

Stanchezza cronica, dolori, tosse persistente: questi sono solo alcuni dei modi in cui si manifesta questa condizione, che si stima colpisca il 10-20% delle persone risultate positive a Sars-cov-2. Vediamo meglio di cosa si tratta e a che punto sono le ricerche che ne indagano i meccanismi

Era il 2020 quando le infezioni dovute al virus Sars-cov-2 e alle sue varianti hanno iniziato a crescere vertiginosamente e a diffondersi a livello globale: come riporta l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), in poco più di tre anni vi sono stati oltre 757 milioni di casi e 6 milioni di vittime dovute a Covid-19. Adesso i contagi, le ospedalizzazioni e i decessi sembrano essere meno elevati rispetto al passato e in continua decrescita, eppure la coda della pandemia potrebbe essere ancora lunga. Uno dei problemi che continua a gravare sui sistemi sanitari nazionali, infatti, è il cosiddetto long Covid, ovvero l’insieme eterogeneo dei segni e sintomi che si manifestano dopo la fine dell’infezione da Sars-cov-2. Non è raro, infatti – le stime più recenti parlano di circa il 10-20% dei casi di Covid-19 – che, settimane dopo la guarigione, continuino a permanere una grande variabilità di sintomi associati all’infezione acuta, oppure se ne sviluppino nuovi: stanchezza cronica, dolori, tosse persistente sono solo alcuni di essi, ma nel corso del tempo ne sono stati identificati più di 200 diversi, che coinvolgono sia l’organismo a livello sistemico sia specifici organi o apparati. Tutto questo impedisce a chi è stato colpito dalla malattia un pieno ritorno al precedente stato di salute, rendendone difficile il rientro al lavoro, riducendo l’autonomia nelle attività quotidiane e in generale diminuendo la qualità della vita.

L’impatto del long Covid sullo stato di salute si sta mostrando rilevante al punto che, alla fine del 2021, il ministero della Salute ha avviato un progetto nazionale, di cui l’Istituto superiore di sanità rappresenta il capofila, che ha lo scopo di monitorarne le dimensioni e la gestione clinica, definire una rete nazionale dei centri in grado di assistere i pazienti e allo stesso tempo strutturare una rete informativa dedicata. Nel frattempo, continuano le ricerche a livello nazionale e internazionale per cercare di fare luce sui meccanismi patologici che condurrebbero al long Covid, per consentire una maggiore comprensione di questo problema e, auspicabilmente, trovare strategie efficaci per gestirlo meglio.

Una definizione e qualche numero

Facciamo un passo indietro. Nell’aprile 2020, poco dopo l’inizio della pandemia, iniziarono ad emergere segnalazioni da parte di pazienti secondo cui persone precedentemente sane, dopo un’infezione da Sars-cov-2 presentavano sintomi persistenti e mostravano di non riprendersi dalla malattia. Questi pazienti hanno iniziato a riferirsi a sé stessi come “long haulers” (la cui traduzione letterale è “trasportatori lunghi”) coniando anche il termine long Covid: poco dopo, anche grazie agli sforzi delle comunità di pazienti, il nome dato a questa condizione è iniziato a circolare anche all’interno della comunità scientifica, che ha cominciato a indagare questo aspetto, dandone definizioni più precise e indicando preliminari linee guida per la gestione dei pazienti.

Secondo i Centers for disease control and prevention statunitensi, infatti, il long Covid è definito come l’insieme dei segni, sintomi e condizioni che continuano o si sviluppano dopo l’infezione iniziale da Sars-cov-2, rappresentando molte entità potenzialmente sovrapposte, probabilmente con diverse cause biologiche, diversi fattori di rischio ed esiti differenti. In particolare, riporta l’Istituto superiore di sanità, il long Covid includerebbe almeno due condizioni distinte: la cosiddetta malattia Covid-19 sintomatica persistente, in cui i sintomi continuano a manifestarsi oltre quattro settimane dall’infezione fino a un massimo di dodici settimane, e la sindrome post-Covid, in cui i sintomi si prolungano per più di dodici settimane e non possono essere spiegati da nessun’altra condizione patologica.

Ma quanto è diffusa questa condizione? È difficile fare una stima precisa, ma si ritiene che, nei primi due anni della pandemia, più di 17 milioni di persone in Europa possano aver sperimentato il long Covid. Non solo: secondo un recente documento dell’Oms, un quarto delle persone con Covid-19 manifesterebbe sintomi persistenti a distanza di 4-5 settimane dalla positività, mentre lo studio più ampio condotto in questo campo, eseguito nel Regno Unito coinvolgendo oltre 20.000 persone, ha mostrato una prevalenza di sintomi del 13% oltre le 12 settimane dopo l’infezione, con un rischio maggiore nelle donne rispetto agli uomini e nella fascia d’età 25-34 anni. I dati raccolti, comunque, sono soggetti a una discreta variabilità: per esempio, in un altro studio condotto nel Regno Unito su oltre 4.000 soggetti, la prevalenza dei sintomi associati al long Covid è risultata più bassa, pari al 13% a 4 settimane dall’infezione, al 4,5% oltre le 8 settimane e al 2,3% oltre le 12 settimane. E ancora, un altro studio eseguito in Italia su 143 pazienti ospedalizzati e valutati due mesi dopo la prima insorgenza dei sintomi ha rilevato che solo il 13% dei pazienti era completamente asintomatico, mentre il 32% riferiva uno o due sintomi e il 55% ne aveva tre o più. In conclusione, in base ai vari studi condotti finora, almeno tra il 10 e il 20% delle persone positive a Sars-cov-2 svilupperebbe sintomi associabili al long Covid.

Un’enorme variabilità di sintomi

Le manifestazioni cliniche del long Covid sono molto variabili: segni e sintomi possono presentarsi sia singolarmente che in combinazione tra di loro, possono essere transitori o intermittenti, cambiare nel tempo o essere costanti. In generale diversi studi hanno evidenziato che più grave è stata la malattia acuta, maggiore rischia di essere l’entità dei sintomi nel tempo, ma il long Covid si può presentare anche nelle persone che hanno avuto un decorso della malattia lieve. Una persona con questa condizione può presentare uno o più sintomi generali e/o a carico di specifici organi e apparati. Tra i sintomi sistemici i più diffusi vi sono fatica persistente, stanchezza eccessiva, febbre, debolezza muscolare, dolori muscolari e articolari, riduzione dell’appetito e un generale peggioramento dello stato di salute percepito.

Per quanto riguarda i sintomi più specifici, a livello dell’apparato respiratorio possono manifestarsi dispnea, tosse persistente e diminuzione della capacità di espansione della gabbia toracica; per quanto riguarda l’apparato cardiovascolare si possono verificare fitte e dolori al petto, tachicardia e palpitazioni al minimo sforzo, aritmie (battito cardiaco irregolare) o variazioni della pressione arteriosa. I sintomi neurologici comprendono cefalea, deterioramento cognitivo (difficoltà di concentrazione e di attenzione, problemi di memoria, difficoltà nelle funzioni esecutive), neuropatia periferica; inoltre, si possono verificare alterazioni a livello dell’olfatto, del gusto e dell’udito. Tra i sintomi che coinvolgono l’apparato intestinale vi sono nausea, vomito, dolori addominali, diarrea, dispepsia, reflusso gastroesofageo, distensione addominale. Sono piuttosto comuni anche le manifestazioni cutanee come geloni, rossori e rash; più rare manifestazioni come l’alopecia o la riattivazione di malattie immunitarie come la psoriasi. Infine, sono stati riscontrati sintomi anche a livello psicologico o psichiatrico, tra cui disturbi del sonno, malessere cronico, depressione, ansia e delirio, fino ad arrivare, in alcuni pazienti, ai sintomi legati al disturbo da stress post-traumatico, soprattutto dovuti all’isolamento sociale.

Le cause, un enigma da risolvere

Anche a causa dell’elevata variabilità delle sue manifestazioni cliniche, i meccanismi attraverso cui l’infezione da Sars-cov-2 possa determinare il long Covid non sono stati ancora completamente definiti e rimangono piuttosto ambigui; probabilmente, comunque, si tratta di una patologia multifattoriale, in cui avrebbe un ruolo chiave sia il danno d’organo diretto causato dal coronavirus, sia la risposta immunitaria, con un massivo rilascio di molecole che promuovono l’infiammazione o lo sviluppo di uno stato di eccessiva coagulazione. In particolare, diversi studi hanno suggerito che la tendenza di Sars-cov-2 a colpire le cellule del sistema nervoso potrebbe spiegare i disturbi sensoriali o neurologici tipici del long Covid, mentre una reazione immunitaria disfunzionale in risposta all’infezione iniziale o alla persistenza virale possa provocare disturbi come manifestazioni autoimmuni, attivazione della via della coagulazione o disturbi metabolici. Non solo: mentre gli studi iniziali su Covid-19 si sono concentrati principalmente sulle manifestazioni polmonari della malattia, progressivamente si è diffusa l’idea che le manifestazioni sistemiche della malattia siano legate anche a un coinvolgimento diretto o indiretto dell’endotelio, il tessuto che riveste i vasi sanguigni di tutto l’organismo. In sostanza, il quadro clinico del long Covid non può presumibilmente essere attribuito a una singola causa, ma i meccanismi responsabili sono probabilmente numerosi e intrecciati tra loro. Le ricerche non si fermano: man mano che gli studi vanno avanti vengono scoperti nuovi elementi che possono contribuire alla risoluzione di questo enigma. Cercare di fare chiarezza sulle cause e i meccanismi fisiopatologici del long Covid è fondamentale per trovare nuove strategie terapeutiche per curare questa condizione o per diminuirne i sintomi.

Un esempio è rappresentato da un recente studio in corso di pubblicazione sulla rivista International Journal of Molecular Sciences, coordinato da Francesco Landi, direttore del dipartimento di Scienze dell’invecchiamento ortopediche e reumatologiche del Policlinico Gemelli di Roma, che suggerisce che la cosiddetta fatigue, ovvero la stanchezza estrema – uno dei sintomi più diffusi del long Covid – sia causata da un’alterazione del metabolismo dell’arginina. L’arginina è un amminoacido che permette il funzionamento (attraverso un altro metabolita, l’ossido nitrico) di un enzima chiave nelle cellule endoteliali, migliorandone la loro funzione e regolando la risposta immunitaria. Allo stesso modo, recenti studi clinici hanno dimostrato che la vitamina C sarebbe in grado di migliorare lo squilibrio ossidativo e il rimodellamento dell’endotelio indotto da diversi fattori di stress, un aspetto che ha importanti implicazioni nelle infezioni persistenti, compresa quella da Sars-cov-2.

È stato ipotizzato che una carenza di arginina possa essere coinvolta nei sintomi sistemici associati al long Covid (in particolar modo la fatigue) e che la sua somministrazione – insieme alla vitamina C – li possa mitigare: i ricercatori, infatti, hanno somministrato a pazienti adulti con long Covid a otto mesi dalla positività 1,6 grammi di arginina e 500 mg di vitamina C liposomiale per 28 giorni, analizzando poi la concentrazione dell’amminoacido nel sangue e confrontandola con quella di persone sane. Al termine dei 28 giorni i livelli ematici di arginina dei partecipanti allo studio sono saliti, raggiungendo valori simili a quelli delle persone sane, dimostrando che la somministrazione di arginina potesse essere in grado di contrastare la fatigue e di ripristinarne il metabolismo, rappresentando potenzialmente una nuova strategia integrativa efficace contro uno dei sintomi più comuni di una sindrome di cui si sa decisamente ancora troppo poco. 

Fonti: