Di Chiara Di Lucente

Si tratta di un affascinante meccanismo che si verifica quando un intervento medico “finto” mostra benefici nel migliorare la salute dei pazienti: vediamo di cosa si tratta

La storia di oggi inizia da Cornelia, paziente con cui Fabrizio Benedetti, professore di fisiologia e neuroscienze dell’Università di Torino e uno dei principali esperti dell’effetto placebo a livello mondiale, apre il suo libro La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia. Cornelia è una donna di cinquantuno anni che, all’inizio degli anni Novanta, decide di partecipare a un pionieristico studio, condotto dallo stesso Benedetti, sugli effetti dei fattori psicologici associati alla relazione di cura tra medici e pazienti sul dolore. La donna, infatti, è affetta da un tumore al polmone, per il quale ha subito un’operazione che le genera un dolore al torace talmente forte e persistente da impedirle di muoversi normalmente, di eseguire le più semplici azioni della vita quotidiana e, addirittura, di respirare agevolmente. Anche i medicinali specifici per il dolore sembrano fare poco effetto: per questo si è rivolta a Benedetti, fiduciosa non solo di trovare un rimedio per la sua condizione, ma anche di contribuire ad aiutare le altre persone che soffrono come lei.

Cornelia è la prima partecipante della sperimentazione, che avviene in questo modo: dopo un colloquio approfondito, in cui viene approfondita la condizione clinica del paziente, ma soprattutto viene creata una relazione di fiducia ed empatia con il medico, quest’ultimo somministra, attraverso un’iniezione, un farmaco contro il dolore, mentre osserva sia come reagisce il paziente (quindi se percepisce che il dolore si è attenuato o se riesce a fare i movimenti che prima gli erano impediti) sia, mediante una risonanza magnetica, eventuali modificazioni funzionali in alcune aree del cervello. Il cardine della sperimentazione, però, è che i partecipanti allo studio non sanno quale sia il contenuto della siringa: nella metà dei casi si tratta di morfina, medicinale oppiaceo contro il dolore, negli altri invece c’è acqua distillata, che non dovrebbe aver alcun effetto sul dolore percepito. In questo caso, il condizionale è d’obbligo: Benedetti racconta che, dopo averle somministrato l’acqua distillata – stando ben attento a mantenere un atteggiamento empatico e a ripetere parole fiduciose riguardo il successo del trattamento – Cornelia ha iniziato a percepire un sollievo dal dolore, riuscendo addirittura a muovere il braccio, cosa prima per lei impossibile. Anche dalla risonanza magnetica il medico osserva che nel cervello della paziente si sono attivate le stesse aree che normalmente si attivano quando viene somministrata la morfina.

Senza entrare troppo nei dettagli – ben raccontati nel libro – Benedetti decide di fare ulteriori prove sperimentali, per indagare meglio cosa fosse successo, ottenendo un risultato sorprendente: grazie alle parole cariche di fiducia e al rituale con cui è stata somministrata l’acqua distillata (identico in tutto e per tutto a una somministrazione di un farmaco vero), in Cornelia e poi in altri pazienti che hanno partecipato allo studio si sono attivate le stesse vie nervose che si attivano con la morfina. Insomma, qualcosa che non era un farmaco era stato in grado di diminuire la percezione del dolore e migliorare il benessere dei pazienti. “Mi resi conto che in effetti qualcosa avevo iniettato: un’iniezione di parole di fiducia e speranza”, si legge nel libro, edito da Mondadori.

Che cos’è l’effetto placebo e come si manifesta

Quello che ha sperimentato Cornelia, e che sarà oggetto di molti studi da parte di Benedetti e non solo, è il cosiddetto effetto placebo, un fenomeno decisamente affascinante che si verifica quando un finto intervento medico (detto tecnicamente “inerte”, ovvero che per la sua natura non sarebbe in grado di indurre effetti fisici nell’organismo) provoca un miglioramento nelle condizioni di un paziente, grazie ad alcuni fattori associati alla percezione dell’intervento da parte del paziente stesso. Facciamo un passo indietro: un placebo, infatti, è una sostanza inerte o un trattamento medico senza alcuna proprietà terapeutica; esempi di interventi placebo includono pillole costituite solo da zucchero o farina, iniezioni di acqua distillata e rituali terapeutici senza la somministrazione di farmaci. Il placebo è un fattore fondamentale nelle sperimentazioni cliniche: per testare che un farmaco o un qualsiasi intervento terapeutico abbia una certa efficacia, infatti, solitamente quello che si fa è testare due gruppi di pazienti, di cui uno riceve il trattamento vero e proprio, mentre l’altro riceve quello inerte, il placebo. Teoricamente, il gruppo che riceve il placebo non dovrebbe riscontrare miglioramenti, ma in realtà nella maggior parte dei casi (e soprattutto per alcune malattie), i pazienti sperimentano un cambiamento, fisico o mentale, collegato al significato simbolico attribuito all’intervento terapeutico: l’effetto placebo.

Sebbene il termine placebo si riferisca agli interventi inerti, l’effetto placebo non si limita a questo, anzi: trattamenti medici di provata efficacia (come farmaci o interventi chirurgici) possono anche generare, insieme alla loro azione organica, un effetto placebo significativo. Tradizionalmente, quindi, l’effetto placebo era considerato una variabile fastidiosa da tenere sotto controllo, in particolare durante gli studi clinici; eppure, alla luce di numerose ricerche che dimostrano il suo potenziale, negli ultimi decenni c’è stato un forte interesse nei riguardi di questo complesso fenomeno. Diversi studi, infatti, hanno dimostrato il ruolo dell’effetto placebo come potente regolatore della salute in condizioni patologiche come emicrania, dolore, artrite, asma, ipertensione e depressione. Inoltre, occorre puntualizzare che l’effetto psico-sociale associato a un intervento terapeutico può non essere benefico e in alcuni casi può portare a effetti indesiderati: in questo caso si chiama effetto nocebo (dal latino nocere, che significa “danneggiare”). Comunque sia, qualunque siano i loro esiti, sembra che l’effetto placebo e l’effetto nocebo si basino sugli stessi meccanismi psicologici e neurobiologici. Vediamoli meglio.

I meccanismi dietro l’effetto placebo

Nonostante l’attenzione di cui gode al momento l’effetto placebo nella ricerca scientifica, non si ha ancora una comprensione chiara e completa di tutti i meccanismi con cui questo si manifesta e viene regolato, probabilmente a causa della natura estremamente complessa delle interazioni mente-corpo. Tuttavia, i ricercatori stanno iniziando a svelare le sue basi neurobiologiche: sembra, infatti, che dietro l’effetto placebo vi siano soprattutto due meccanismi psicologici noti come il condizionamento classico e le aspettative. Il condizionamento classico è una forma di apprendimento in cui si forma un’associazione tra un determinato stimolo e una risposta, che può essere emotiva, a livello di pensiero o di comportamento; quest’associazione poi viene ricordata, influenzando le esperienze future. Per esempio, se una persona impara che, dopo aver fatto un’iniezione si sente meglio, probabilmente si sentirà meglio anche dopo un’iniezione di acqua distillata, perché ha imparato in passato questa risposta, la quale è rimasta impressa nella sua memoria. In maniera complementare, le aspettative che una persona ha nei confronti di un trattamento medico, che possono essere indotte da istruzioni verbali (come il medico che rassicura il paziente sul fatto che starà meglio) influenzano le risposte psicologiche e fisiologiche sul trattamento stesso. Spesso condizionamento e aspettative hanno uno stretto rapporto di interconnessione tra loro.

Nel corso degli anni, sono stati trovati anche altri meccanismi che potrebbero essere alla base dell’effetto placebo, come la riduzione dell’ansia, la memoria e l’apprendimento, oltre che alcune componenti genetiche (tuttora indagate dalla letteratura scientifica); inoltre sembrerebbero esserci altri fattori grado di influenzare significativamente l’effetto placebo, come il rapporto medico-paziente, lo stato psicologico e la personalità del paziente, la condizione medica stessa e le circostanze ambientali. In sostanza, sarebbe più corretto dire che non esiste un solo effetto placebo, ma molti diversi, che avvengono con differenti meccanismi e in altrettanto diversi sistemi e apparati dell’organismo.

Fonti:
  • Munnangi S, Sundjaja JH, Singh K, et al. Placebo Effect. [Updated 2022 Jun 23]. In: StatPearls [Internet]. Treasure Island (FL): StatPearls Publishing; 2022 Jan-. Available from: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK513296/
  • Tavel ME. The placebo effect: the good, the bad, and the ugly. Am J Med. 2014 Jun;127(6):484-8. doi: 10.1016/j.amjmed.2014.02.002. Epub 2014 Feb 8. PMID: 24518105.
  • Požgain I, Požgain Z, Degmečić D. Placebo and nocebo effect: a mini-review. Psychiatr Danub. 2014 Jun;26(2):100-7. PMID: 24909245.
  • https://www.treccani.it/enciclopedia/effetto-placebo-e-nocebo_%28XXI-Secolo%29/
  • Fabrizio Benedetti, La speranza è un farmaco. Come le parole possono vincere la malattia, Mondadori 2018