Di Chiara Di Lucente
Medico internista e neurologo con quasi cinquant’anni di esperienza, il dott. Armando Mancini si occupa di malattie cerebrovascolari, cardiorespiratorie acute e patologie gastroenterologiche. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio la sua storia, il suo approccio alla medicina e le sfide del presente.

Dottor Mancini, cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso professionale?
In tutta onestà? L’immagine del medico che si vedeva nei film e nelle serie televisive. Sono un baby boomer, ho vissuto l’adolescenza negli anni ’60 e ’70, quando il cinema e la TV raccontavano storie di medici capaci di miracoli. Personaggi come il dottor Zivago o il dottor Kildare sono stati un’ispirazione. Poi, certo, le cose nella realtà non stanno sempre così, ma quel fascino iniziale è rimasto.
La realtà quindi non è stata all’altezza di quell’immaginario?
Non proprio, nel senso che nella realtà non si fanno miracoli, e il nostro lavoro è ben diverso da quello raccontato nei film. Ma non sono rimasto deluso. Anzi: c’è una grande bellezza nell’affrontare problemi reali, ogni giorno. Il momento in cui riesci a risolvere un problema, a far star meglio una persona. Non sempre si può guarire, ma si deve sempre curare. È questa la differenza che mi guida. In quasi cinquant’anni di carriera ho vissuto tante esperienze, sono stato protagonista e spettatore di tanti episodi, alcuni da ricordare, altri da dimenticare. Ma quello che mi resta è la relazione con le persone e l’impatto che possiamo avere sulla loro vita.
Quali sono le domande che i pazienti le fanno più spesso? E i consigli che lei dà più spesso?
Le domande più frequenti sono quelle che avvengono solitamente dopo una diagnosi: “Dottore, è grave?”, “Guarirò?”. Sono domande semplici ma fondamentali, che nascono un po’ dall’ansia e un po’ dal bisogno di chiarezza e di supporto da parte del professionista sanitario. E rispondere con onestà e attenzione è una parte fondamentale del nostro lavoro. Per quanto riguarda i consigli, quello che do più di frequente è: cercare di vivere con equilibrio. Io stesso ho smesso di fumare, non bevo, cerco di avere uno stile di vita che sia sano, ma al tempo stesso sostenibile. Non è necessario vivere di costanti privazioni, ma neanche senza freni. Serve buon senso: solo così è possibile andare nella direzione della prevenzione delle malattie e avere una vita il più possibile in salute.
Quali sono le patologie che incontra più frequentemente oggi?
Oggi vedo soprattutto pazienti gravi, spesso con più comorbilità insieme. Questo è sicuramente legato all’invecchiamento della popolazione: si vive più a lungo, ma non necessariamente meglio. Abbiamo più malattie croniche, più fragilità. Nel futuro credo si verificherà un cambiamento demografico forte. I baby boomer, come me, prima o poi spariranno per “scadenza naturale”, come dico spesso, e la popolazione sarà più giovane e meno numerosa. Questo cambierà la struttura della sanità: oggi si investe molto nella geriatria, ma tra vent’anni potrebbero servire meno reparti per anziani, così come i reparti pediatrici sono cambiati dopo il boom degli anni ’50.
Lei esercita la professione di internista da quasi cinquant’anni. Come sono cambiati i pazienti nel tempo?
I pazienti sono molto più informati rispetto al passato, e questo non è un male. Quando ho iniziato, le persone che si rivolgevano a me spesso erano poco istruite, in alcuni casi analfabete. Oggi la situazione è totalmente cambiata: i pazienti leggono articoli scientifici, si informano online. Certo, a volte questo crea confusione, ma in generale è un passo avanti. Bisogna però saper distinguere l’informazione affidabile da quella fuorviante, soprattutto perché rischia di generare ansia inutile. Se, per esempio, una persona avverte un formicolio al braccio, cerca informazioni online e legge della sclerosi multipla, può spaventarsi e convincersi di avere quella malattia. In questo senso è pericoloso: non basta leggere qualcosa su una patologia per diventare esperti, così come non basta conoscere una canzone in inglese per poter dire di parlare inglese. L’interpretazione dei sintomi richiede competenze mediche; è il medico che ha gli strumenti per farlo, magari un domani anche l’intelligenza artificiale, ma per ora no.
Che impatto avrà, secondo lei, l’intelligenza artificiale in medicina?
È uno strumento potentissimo, che può aiutarci molto. Già oggi impieghiamo strumenti informatici che ci aiutano a mettere in relazione dati, a fare elenchi, a cercare risposte, ormai l’intelligenza artificiale fa parte della nostra quotidianità. Il vero nodo, però, sarà quando l’IA avrà un peso decisionale: è lì che si apre un altro scenario, con tutte le problematiche etiche, pratiche e mediche che ne conseguono. Ma credo che per arrivare a quel punto servirà ancora del tempo. Per ora possiamo immaginare un funzionamento simile a quello di Google: fai una domanda, ricevi una serie di risposte e sta a te distinguere, scegliere, interpretare. L’IA, usata così, potrebbe diventare uno strumento utile. Ma se la si trattasse come un oracolo, capace di formulare diagnosi in modo autonomo, allora rischieremmo grossi errori, sollevando grosse questioni etiche. Se sbaglia, chi ne risponde? Potrebbe poi portare a un impoverimento delle competenze nei professionisti sanitari, se si delegano troppo le decisioni. Finché resta uno strumento di supporto, ben venga, ma soprattutto nella professione medica ci sono tanti aspetti che al momento non possono essere sostituiti dall’intelligenza artificiale.
Può farci qualche esempio?
C’è un aspetto che l’intelligenza artificiale difficilmente potrà replicare: le competenze basate sulla comunicazione non verbale. Quando una persona riferisce un sintomo, a volte basta guardarla in faccia per capire che quel sintomo non ce l’ha davvero, o che non è così importante come dice, o viceversa. È una percezione sottile, che passa dallo sguardo, dall’espressione, dal modo in cui si muove. Questo tipo di intuizione, che nasce dall’esperienza e dall’osservazione diretta, oggi l’IA semplicemente non ce l’ha. E forse non ce l’avrà mai. Per questo interpretare le risposte che derivano da dati all’apparenza oggettivi è fondamentale. Serve contesto, serve empatia, serve osservare la comunicazione non verbale. È lì che si colgono le sfumature: la stessa frase detta con tono diverso cambia completamente significato. E questo, per ora, l’intelligenza artificiale non è in grado di coglierlo. Forse un giorno svilupperanno algoritmi capaci di leggere la mimica facciale, forse arriveremo anche lì. Ma attualmente no. E fino ad allora, l’essere umano resta insostituibile.
Cosa fa nel tempo libero? Ha qualche passione personale?
Mi piace aggiustare le cose. Può essere una vecchia bicicletta o una macchina da caffè. Penso sia collegato alla mia professione: se vedo qualcosa che non funziona, mi viene naturale cercare di rimetterla a posto, tanto gli oggetti, quanto le persone.